omelia del vescovo Ernesto Vecchi alla celebrazione nella chiesa di San Pietro a Roma per l’udienza del 20 marzo 2014

Oggi, la Chiesa di Terni – Narni – Amelia, nel contesto della Quaresima in preparazione alla Pasqua, è chiamata ad accogliere, in tutta la sua portata, una particolare grazia del Signore: l’incontro con Pietro, il Principe degli Apostoli, che – oggi – vive in Papa Francesco. Pertanto, se vogliamo entrare in pienezza nella grazia dell’incontro con il successore di Pietro, dobbiamo rivivere l’evento accaduto ai tempi di Gesù, nella regione di Cesarea di Filippo, dove Simon Pietro – illuminato dalla Rivelazione del Padre che è nei cieli – manifesta la vera identità di Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16).

A questo punto Gesù, verificata la volontà del Padre sulla scelta di Pietro come “Vicario dell’amore di Dio” (S. Ambrogio), rivela l’identità e la missione ecclesiale di Simone, figlio di Giona: «E io dico a te: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 18-19).

Pietro, dunque, è la «roccia» (kefa) sulla quale possiamo mettere in sicurezza la nostra fede. Certo, anche lui ha vacillato, perché Satana «lo ha cercato e vagliato come il grano» (Cf. Lc 22, 31), ma si è rimesso in carreggiata, grazie all’intervento di Gesù che ha pregato per lui, proprio «perché la sua fede non venisse meno» (Cf. Lc 22, 32). Ma il suo incidente di percorso lo farà maturare al punto che Gesù non esita a dirgli: «E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22, 32).

Siamo qui proprio per questo: per essere confermati nella nostra fede, che spesso vacilla e diventa “relativismo” pratico – che è più pericoloso di quello dottrinale – perché ci comportiamo come se Dio non esistesse. Anche coloro che possiedono solide convinzioni dottrinali e spirituali – dice Papa Francesco – spesso adottano uno stile di vita troppo compromesso con il denaro, il potere, la mondanità e il consumismo (Cf. Evangelii gaudium, n. 80), come il «ricco Epulone» che non si accorge nemmeno del «povero Lazzaro» (Cf. Lc 16, 19-31) e coltiva la “cultura dello scarto”(Cf. Evangelii gaudium, n. 53).

Diventa allora fondamentale che ciascuno di noi, come Pietro, risponda alla domanda di Gesù: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mt 16, 15). Troppi, oggi, conoscono Gesù solo per sentito dire e non sanno che in Lui, “Verbo incarnato, trova vera luce il mistero dell’uomo” (Gaudium et spes, n. 22). Per questo oggi vogliamo rinnovare la nostra fede in Dio, in Cristo e nella Chiesa, proprio sulla tomba di Pietro che – nei suoi Successori – continua ad essere “il principio visibile e il fondamento perpetuo dell’unità” tra i Vescovi e le Chiese locali nella Chiesa universale, come i Vescovi lo sono per i Sacerdoti e il popolo di Dio nelle Chiese particolari (Cf. Lumen gentium, n. 23).

Solo seguendo Cristo crocifisso e risorto possiamo dare un fondamento solido alla nostra vita e percorrere – come abbiamo sentito dal Profeta Geremia – la via dellabenedizione, che ci rende fecondi «come un albero piantato lungo un corso d’acqua: non smette mai di produrre frutti» (Cf. 17, 7-8).

Il Vangelo di Luca, con la nota parabola dell’uomo ricco “bacchettone” e del povero Lazzaro, solleva il velo del tempo e ci insegna a considerare la condizione presente, che passa, in rapporto alla vita eterna. Le scelte della vita presente rendono definitiva e immutabile la condizione umana nell’eternità, per questo l’uomo e la donna – nel tempo – decidono il loro destino: vita o morte, benedizione o maledizione.

Chi confida in se stesso e in una felicità egoistica entra nelle tenebre: diventa cieco e incapace di guardare in faccia la realtà di una emarginazione sociale che grida al cospetto di Dio (Cf. Gen 4, 10), il quale «veglia sul cammino dei giusti, mentre manda in rovina la via dei malvagi» (Sal 1). Chi si affida a Dio, invece, porta nel cuore un germe di eternità, che fiorirà nella gioia senza fine del Paradiso.

Allora, come evitare di fare scelte sbagliate e senza ritorno? Ascoltare Mosé e i Profeti, cioè Cristo, nel quale il Padre ha detto la parola definitiva sull’uomo e sulla sua storia (Cf. Tertio millennio adveniente, n. 5). Ora questa parola ci porta all’Eucaristia, il “Sacramento della carità”, che fa leva sulla Croce di Cristo, come via verso la risurrezione: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24). In questo modo la Via Crucis – la via del chicco di grano che muore – conduce alla comunione sacramentale come sorgente della comunione ecclesiale. La Via Crucis, allora, a imitazione di Cristo appare come una via «mistagogica», la via del mistero che trasfigura la nostra vita (Cf. Card. Ratzinger, Via Crucis, p.3).

Tra poco – prima della liturgia eucaristica – reciteremo insieme il Credo, cioè ilSimbolo della nostra fede. Il monaco Rufino di Aquileia (sec. IV) ci insegna che la parola simbolo deriva dal greco «Symbállein»: «mettere insieme; incontrarsi». Pertanto, fin dall’antichità le formule di fede si configurano come i segni caratteristici della concordia e della comunione ecclesiale, la prova che «la moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola» (At 4, 32). Oggi è ancora così? A volte non sembra, ma sappiamo che possiamo farcela. Siamo qui per attingere ancora alle sorgenti della nostra fede e ridare smalto alla nostra appartenenza ecclesiale: «Non lasciamoci rubare la comunità!», dice ancora Papa Francesco (Evangelii gaudium, n. 92).